“Driver for Britain and driver for you” questa la scritta che campeggiava sul van di trasporto della nuova squadra debuttante in F.1. Sotto la scritta il disegno stilizzato della loro mascotte porta fortuna: un orsacchiotto con un casco in testa dal quale spuntavano le enormi orecchie. La squadra era improntata da un forte senso di appartenenza britannica: inglesi erano maestranze, direttore tecnico e sportivo, pilota, al vertice della piramide un eclettico simpatico e stravagante nobiluomo britannico Lord Alexander Fermor-Hesketh. Il circo della F.1 accolse con sarcasmo il giovane ed esuberante Lord, pensavano fosse venuto per un capriccio, un divertimento frivolo e momentaneo. Al contrario delle apparenze, non si trattava soltanto di un gioco, si trattava invece di un gruppo di uomini seri e capaci, genuinamente innamorati delle corse, che nel tempo riusciranno a raggiungere i massimi livelli dello sport motoristico. Anthony “Bubbles” Horsley, detto Anthony lo spumeggiante, Harvey Postethwaite il dottore, ed il pilota James Hunt detto “shunt la collisione” questa la struttura portante della squadra che, dopo aver gareggiato ad alto livello modificando fortemente un telaio commerciale March,la squadra decise di costruire una macchina propria. Una impresa titanica anche per quei tempi, una impresa non solo tecnologica, dato le ridotte dimensioni del team, ma soprattutto finanziaria. Perché da sempre la squadra correva senza uno sponsor; la macchina era sempre stata di un bianco immacolato con due righe, una rossa e l’altra blu, trasversali all’abitacolo in onore della bandiera inglese.
Lord Hesketh aveva sempre di fatto gareggiato a sue spese non prendendo mai in considerazione l’idea che la macchina perdesse la propria identità. Come dire che la passione pura e semplice non può scendere a compromessi commerciali. Lord Hesketh riuscì a finanziare ancora per un anno la propria squadra e la nuova vettura si rivelò una monoposto altamente competitiva e vincente . A fine stagione però i problemi finanziari si fecero pressanti, doveva essere presa una decisione radicale. Per molti era un non problema; esisteva un squadra con una macchina vincente, un team manager dalle indubbie qualità, un capo progetto che ha fatto scuola in F.1 ed un pilota vero diamante grezzo a cui bastava un solo pizzico di esperienza per poter esplodere, difatti l’anno dopo divenne campione del mondo. Ma per vincere occorreva investire cifre importanti che solo le sponsorizzazioni potevano coprire. Lord Hesketh con una squadra così aveva solo l’imbarazzo della scelta una schiera di probabili finanziatori bussavano alla porta: il suo giocattolo poteva tramutarsi in uno splendido businness. Nessuna altra squadra, compresa la Ferrari poteva permettersi di correre senza dei contratti pubblicitari e commerciali. Bastava un sì, lo avevano già detto tutte le altre squadre. Che importava se avessero dipinto la macchina di un altro colore e appiccicato qualche adesivo, il sogno di vincere il mondiale con una squadra tutta inglese fondata da lui era ad un passo, bastava accettare quel piccolo compromesso rinunciare solo ad un pezzo della propria identità; in cambio però la tranquillità finanziaria ed un posto a tavola nel circus F.1 ma Lord Alexander Hesketh non volle scendere a compromessi che offendessero la sua dignità, disse no. Sciolse la squadra e usci dalla F.1.
E’ difficile che questo accada soprattutto ai giorni nostri in un mondo dove i soldi, il businnes sono al di sopra di ogni cosa, la F.1. poi è il posto dove il capitale regna nel modo più spietato ed assoluto lasciando sempre meno spazio al talento, alla fantasia e alla capacità di guida . E’ bello però sognare che possa ancora accadere che si dia più valore al sentimento di amore per lo sport nel senso etico della parola, credere che il pilota, l’uomo sia predominante sulla macchina.
“Ogni tanto una porta si apre, non importa se per lasciare entrare una farfalla o per lasciar fuggire un prigioniero”. Accade di rado, ma è bello che accada.
Ed ecco che per me quell’orso, mascotte della Hesketh racing, da allora è simbolo della passione pura senza compromessi, di una passione senza limiti e confini, di un amore puro ed incontaminato per gli sport motoristici. Il mio orso è un simbolo che viene da lontano, da quegli oramai definiti “mitici anni ’70 “: strani davvero quegli anni, li ricordo pieni di luce e soprattutto di eccitazione, si viveva in uno stato di trepida attesa di chissà quale cambiamento, di una svolta epocale nella vita di tutti i giorni, sembrava essere sulla rampa di lancio verso la nascita di un mondo diverso …
Invece non è cambiato niente. Anzi chi li ha vissuti, per età anagrafica, li rimpiange soprattutto gli appassionati di corse come
noi. Per chi, come noi amici dell’autodromo, lo sport motoristico è soprattutto scuola, scuola di vita e di coraggio, questo orso è simbolo di un modo più completo di amare un mondo che sta scomparendo soffocato dai tentacoli della pubblicità e quindi da costi proibitivi. Per noi il centro è e deve essere l’uomo, dove il pilota è rischio cosciente, l’ebrezza della velocità la capacità di saperla plasmare e piegare alla sua volontà, la ricerca del limite, il proprio e quello del mezzo meccanico, l’astuzia, l’azione, il movimento, la violenza il rumore l’odore della gomma bruciata, tutto questo sta dentro una competizione e quindi dentro il mio orso. Ammetto che però è difficile essere coerenti con questa filosofia di pensiero, perché va a cozzare contro una montagna di luoghi oramai comuni nella cultura di chi segue questo sport senza aver alle spalle, per motivi anagrafici, un retroterra di conoscenza della storia del motorismo.
E’ scontato dire che Lui, l’orso degli amici dell’autodromo, non si identifica nella F.1 attuale, dove il potere sportivo e quindi legislativo è in mano alle case costruttrici e agli sponsor. Costantemente poco propensi a lasciare spazio a talento e capacità di guida, soffocati da un regolamento costruttivo iper tecnologico dove il ruolo di pilotaggio è marginale alla strategia di gara, ai rifornimenti ai box e ad una aerodinamica esasperata e dissacrante che di fatto impedisce di esprimere al pilota talento e fantasia nel disegnare le proprie traiettorie di guida su qualsiasi pista del mondiale.
Il punto focale è però rappresentato proprio dai circuiti su cui si svolgono i G.P. Gli autodromi, snaturati nella loro configurazione originale per piegarsi al volere di questa Federazione incapace di imporsi ai costruttori. Non si vuol capire che quando la tecnologia diventa estrema c’è sempre una soluzione che prevale e quindi alla lunga se le macchine non fossero colorate diversamente non si distinguerebbe una squadra dall’altra; vince chi spende di più nelle ricerche esasperate in galleria del vento per avere lo step evolutivo estremo. Per riavere un minimo di credibilità questa F.1 deve fare due passi indietro per ricreare condizioni in cui un pilota di talento possa mostrare il suo potenziale anche non guidando per un top team, e soprattutto riportare le piste nella loro configurazione originale con i curvoni e le esse da affrontare in pieno grazie la proprio coraggio e non alle sofisticazioni elettroniche e aerodinamiche. L’abilità di questa F.1 è quella di avere mitizzato un evento nonostante sia svuotato del suo contenuto: si riesce ad attirare un numero elevatissimo di fans che non guardano la corsa nel senso del pilotaggio, ma attratti dallo spettacolo come evento alla moda, elevando gradualmente il costo di accesso agli autodromi. Un nuovo pubblico quindi, diverso da quello che frequenta l’autodromo tutto l’anno, gente legata agli sponsor che si accaparrano intere tribune per favorire la propria clientela.
Il mio orso storce il naso, ma sa che la F.1 è importante per la vita del nostro autodromo, in attesa di tempi migliori chiude gli occhi e comincia a sognare. Lui è un testardo, un idealista, perduto dentro le sue fantasie di una F.1, teatro di battaglie epiche, di sorpassi a suon di staccate e frenate a ruote fumanti, di traiettorie imprevedibili e impercettibili ” come codici di geometria esistenziali,” dove la differenza fra buoni piloti e campioni si misurino sul coraggio, la determinazione nel percorrere un curvone in pieno come lo era la curva di Biassono o la curva Ascari qualche anno fa.
Il mio orso è un sogno.
Il mio orso è un’utopia. Il mio orso è il simbolo di una finale olimpica degli sport motoristici all’autodromo di Monza. Dove l’arte del pilotaggio di macchine e moto diventi la sublimazione del gesto atletico. Lasciare almeno per una volta che la macchina sia solo un attrezzo come lo è l’asta per il saltatore o il martello per il lanciatore. I piloti, quelli veri, come gli atleti olimpici ambiscono gareggiare e confrontarsi consci del loro potenziale per dimostrare, prima a loro stessi poi agli altri, di essere i migliori senza contare su alcun aiuto esterno: solo il proprio talento deve risplendere. Dieci piloti per nazione iscritti dopo essere stati selezionati dalla propria Federazione, discriminante naturalmente solo le lancette del cronometro, alla guida di vetture e motociclette stock block che verrebbero sorteggiate e cambiate ad ogni turno di prova. Sia per macchine che per moto naturalmente, nessun aiuto elettronico, cambi rigorosamente manuali, sospensioni meccaniche, dischi freni in acciaio, gomme derivate dalla produzione, potenza dei motori quanto basta.
I migliori trenta tempi entrano in finale e dopo tutta una settimana dedicata alle prove una domenica da sogno per il grande finale: la mattina dedicata ai motociclisti e il pomeriggio alle quattro ruote. Niente TV e sponsor ingresso riservato solo ai tesserati amici dell’autodromo. Il vincitore incarnerà realmente quel cavaliere del rischio di antica memoria che avrà saputo coniugare coraggio determinazione freddezza ostinazione e quel pizzico di follia tipica di un campione del mondo. Il vincitore, in piedi sul gradino più alto del podio, avvolto nella sua bandiera saluta il pubblico ed alza al cielo la sua medaglia d’oro raffigurante naturalmente l’orso degli amici dell’autodromo e del parco.
Il mio orso rappresenta questo sogno, quanto tempo occorrerà per realizzarlo? Non importa il mio orso a tutto il tempo che vuole per aspettare Lui, come la passione che ci brucia dentro, è immortale. Il mio orso ha un aspetto malinconico, crepuscolare, gli occhi con il colore di una nube, però senza pioggia.Il mio orso è l’entusiasmo giovanile che normalmente scema con l’età che avanza il rischio il brivido di vivere senza compromessi e
mediazioni.
Il mio orso aleggia nel vento, nell’aria, fra le fronde degli alberi dell’autodromo, è quella leggera brezza che fa muovere le cime degli alberi. Si sente, è palpabile soprattutto negli attimi che precedono ogni partenza di una gara, è quello stato di eccitazione che ti prende quando in tribuna seduto da solo o con amici fissi impaziente nella direzione da cui dovrebbe spuntare all’orizzonte quella macchia di colore e di rumore che ti riempie, ti invade, ti sommerge, ti penetra dritto fino in fondo all’anima ; perché il mio orso è un’entità una essenza come può esserlo lo schiocco del sole in un campo di grano, il colore delle nuvole basse o il frullo di un selvatico. ” Un tempo, un simbolo, un ponte da cui ripartire”. Un pò folle un pò saggio questo orso è da sempre il mio maestro, un pó musone e lunatico alterna gioie sfrenate a malinconie profonde. Cerco di imparare da Lui, ma invano, quella sua filosofia di vita quel giusto equilibrio spirituale; mi prende per mano quando gli orizzonti si fanno più ampi e quindi è più facile perdere l’orientamento. Anch’io voglio fortemente credere per entrare in quella età mitica, in quella stagione della conoscenza assoluta, in quel sapere spirituale che ti porta ad una presa di coscienza del risveglio e rinnovamento voglio mirare per essere sempre in armonia con un comandamento principe ” la Forza dello spirito, e non quella dei muscoli, fa vivere giovani a lungo “. Mi piace, mi appaga stare con Lui. Quando posso scappo dagli impegni ed entro in autodromo, lo ritrovo al solito posto ad aspettarmi; tutti e due sentiamo forte il peso del debito di riconoscenza verso il nostro autodromo, questo posto è il giardino segreto sospeso nella nostra anima, un posto sicuro dove rifugiarsi quando le avversità della vita ci assillano. Li davvero il tempo mi scorre accanto senza però sfiorarmi. Dopo tanti anni non posso ancora dire di conoscerlo a fondo. Mi sorprende mi confonde quella sua forza d’animo ed entusiasmo che si accende come d’incanto ogni qualvolta un rombo di motore si leva sul cielo del autodromo; quando un pilota una macchina, una moto lanciati in pista avvicinano il loro limite sfidando ” le correnti gravitazionali lo spazio, la luce ” ricercando un rapporto autentico con la natura secondo i modi i riti di un bisogno di movimento e velocità nato con l’uomo. Il mio orso, come il suo nobile predecessore, vuole anche essere simbolo di un sano tifo nazionalistico per i piloti Italiani. Qual’ è stata l’ultima volta di un vincitore tricolore in un G.P. ? E l’ultimo campione del mondo italiano ? Bisogna ricreare un alone di affetto e stima per i nostri portacolori soprattutto in F.1. La scuola italiana non ha niente da invidiare a nessuno, ha bisogno di sentirsi appoggiata in modo completo e pieno dagli sportivi e dai media, il resto verrà da se . Il mio orso è anche profondamente religioso da Lui ho imparato il rispetto ed una particolare preghiera che forse molti giovani fans di oggi non conoscono. Allora più di adesso nelle competizioni vi era più coscienza della pericolosità delle corse: il fascino della corsa è anche la consapevolezza che chi sbaglia paga tutto e subito. Le piste, le macchine perdonavano meno gli errori, l’ombra della morte era più palpabile e percettibile ed era per questo che gli sportivi amavano in modo più viscerale questo sport. I piloti di oggi, confrontati a quelli di allora, sono semplicemente uomini di affari che guidano veloci. Quanti di questi giovani driver di oggi affronterebbero con lo stesso impeto e coraggio pilotando al limite macchine con telai in alluminio scatolato e posto guida davanti all’asse anteriore delle ruote sfidando piste come la vecchia Monza Spa, Nürburgring, Zeltweg, Brands Hatch, Le Mans. Penso nessuno, troppo rischio per i loro deboli cuori.
Quanta angoscia e rammarico quel sabato vigilia di G.P. Un insolito tramestio all’interno del box di Ken Tyrrell, Jackie Stewart a braccetto con la moglie Helene visibilmente segnata in viso, mestamente si dirigevano nel vicino box Lotus, Jackie con lo sguardo cerca una giovane donna, gli si avvicina e abbracciandola gli bisbiglia ” vieni Nina , Jochen si è fatto male” .
Quanti di questi giovani gladiatori hanno sacrificato la propria esistenza immolandola sull’altare della passione? Li portiamo sempre dentro il nostro cuore, ricordandoli sempre con affetto quando periodicamente affiora nella nostra mente la preghiera del pilota :
“Signore, nostro Signore Signore del sangue che corre nel buio delle vene la corsa della vita. Signore dei mondi sfreccianti sulle piste del cosmo
verso mete impensabili.
Signore delle particelle che ruotano vertiginose nei circuiti della materia. Signore, nostro Signore reggi il mio braccio sul volante
regola la forza dei miei piedi sull’acceleratore e sul freno aiutami a calcolare il possibile, allontana da me la tentazione diabolica di osare impossibile
dissolvi i fantasmi neri delle curve fa piovere sabbia sull’olio delle coppe, proteggi il mio motore che canta a gran voce la Tua gloria sulla terra e concedi anche a me un letto per morire.“
Nonostante tutto però il destino, la storia dello sport motoristico insegna che periodicamente si deve pagare un tributo di sangue sull’altare della passione. Ma il mio orso oltre che essere un ” templare” un cavaliere Jedi è anche emissario del Dio della velocità. Mi piace pensare che un attimo prima dell’inevitabile, un attimo prima dello schianto, un attimo prima del dolore fisico della morte mi piace pensare che con un’enorme luce il mio orso penetri nella mente dello sfortunato pilota potandolo via con se accompagnandolo dolcemente nei verdi giardini dell’Eden.
Amico orso tienimi ancora per mano ” insegnami il silenzio e la pazienza, guariscimi dai miei sbalzi d’umore, percorriamo insieme le vie che portano all’essenza” raccontami ancora le gesta di quei cavalieri del rischio di antica memoria che tanto hai amato come ami profondamente questo fantastico mondo delle corse che sta scomparendo. Come fare per salvarlo cosa posiamo fare noi semplici appassionati per fare che le cose cambiano? Da sempre sono gli uomini a fare la storia, a creare gli eventi e non il contrario, quindi per cambiare le cose dobbiamo prima cambiare noi stessi. Forse basterebbe che tutti noi ci sforzassimo di ascoltare quella voce che arriva dal profondo del nostro cuore che sempre ci parla ma che non sentiamo perché per udirla bisogna allenare la mente a nuovi stati di coscienza . Impareremmo ” a scacciare le avversità come si fa con le mosche.” A mai più lasciarci travolgere” dalle pene che ci procura l’esistente,” ed essere per sempre padroni del nostro destino. ” Soffiasse davvero quel vento di scirocco, e arrivasse ogni giorno per spingersi a guardare dietro la faccia abusata delle cose, nei labirinti oscuri delle case, dentro lo specchio segreto di ogni viso, dentro di noi.”