RONNIE PETERSON

Lo “Svedese” di Monza

Esattamente il 12 Settembre di 34 anni fa, per la terza ed ultima volta, l’indimenticabile Ronnie
Peterson
vinceva il Gran Premio d’Italia; forse la sua affermazione più sofferta ma certamente l’ultima
nella storia della Formula Uno moderna in cui un pilota si impose al volante di una monoposto, la
March 761, palesemente inferiore alla concorrenza in pista.
Monza 1976, così uguale e così diversa da oggi.
Tribunette abusive in tubi Innocenti, scheletriche ma traboccanti di passione e incappuciate di ombrelli pronte a salutare il miracoloso ritorno di Niki Lauda, a soli 42 giorni dall’inferno del Nurburgring.
Quell’anno una pioggia leggera rese l’asfalto simile alla superficie di un lago ghiacciato, uno dei tanti
su cui nella nativa Svezia il giovane Ronnie imparò i trucchi della guida.
Forse fu quello il segreto della sua rocambolesca vittoria, maturata partendo dall’ottava posizione
in griglia e dopo aver resistito agli attacchi di Clay Regazzoni.

Mago del bagnato, principe del controsterzo, attaccante puro e difensore spietato, Peterson corse sempre a Monza da beniamino, trovando indiretta ricompensa alla sfortuna patita nelle gare di casa corse sul circuito di Anderstorp: oltre che vincitore nel 1973 e 1974, giunse anche secondo per un centesimo nella leggendaria edizione del 1971 e terzo alla 1000 Chilometri del 1972, al volante della Ferrari. Trionfo e tragedia, perchè proprio in terra brianzola morì per un’embolia grassosa a seguito delle numerose e gravi ferite riportate agli arti inferiori dopo l’incidente al via del Gran Premio del 1978.

Alto, biondo, dal carattere schivo e sempre
accompagnato dalla bellissima ed amata Barbro,
Ronnie Bengt Peterson era nato ad Orebro il 14
Febbraio 1944 e dopo la trafila nei kart e nelle formule
minori finì sulle agende dei team manager del Circus in
seguito alla vittoria in F3 al Gran Premio di Montecarlo
del 1969, che al tempo garantiva il passaggio in
Formula Uno.
L’anno seguente debuttò infatti con la March per poi
passare nel 1973 alla Lotus, con cui ottenne la prima
delle sue 10 vittorie in 123 Gran Premi disputati. Non
poche, se si considerano gli avversari in pista, da
Stewart a Lauda, da Fittipaldi ad Hunt. Un rapporto di
amore-odio con il team del geniale Colin Chapman,
da cui si separò all’inizio del 1976 e in cui fece ritorno
nel fatale 1978.


Proprio quell’anno, dopo stagioni segnate da scelte sbagliate (oltre il ritorno alla March ci fu un 1977 molto
deludente con la Tyrrell) che ne stavano appannando il valore, Peterson era tornato ai vertici grazie alla
rivoluzionaria Lotus 79 ad effetto suolo colorata nera e oro griffata John Player Special, sebbene vincolato
da un rigido contratto di seconda guida di Mario
Andretti
. Nel 1979 avrebbe corso da caposquadra per

la McLaren, ma non ne ebbe il tempo.
Soprannominato “the SuperSwede”, Ronnie Peterson è tutt’ora oggetto di culto tra gli appassionati e al pari di Stirling Moss è considerato il più forte tra i piloti non iridati.Un Re senza corona, a cui il beatle George Harrison dedicò una canzone dal titolo quanto mai azzeccato ed eloquente: “Faster”, più veloce. Questo fu lo svedese: velocità pura, sempre pronto ad esaltarsi a Monza guidando in controsterzo: mai pulito ma genialmente efficace sul giro veloce.
Peterson fu anche l’idolo di un giovane pilota milanese di nome Michele Alboreto, che per tutta la sua carriera indossò, esattamente come il suo eroe, un casco dai colori blu e giallo.
Sono dunque passati 35 anni dall’ultimo successo e 33 da quel triste 11 Settembre 1978, in cui la Formula Uno perse uno dei suoi talenti più puri e rappresentativi.
Eppure per molti tifosi Peterson è ancora in pista a Monza, pronto a sventolare al traguardo la bandiera a
scacchi della Leggenda.
Ronnie, non resta allora che dirti: tack sa mycket. Un termine svedese che non è il nome di un mobile
Ikea ma che significa solo e unicamente: grazie.
Perchè in fondo certe Corse non finiscono mai.

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