Scritto da Francesca Milazzo
Cenni storici sul parco cintato più grande d’Europa
“Eugenio Beauharnais qui giunto colle idee fastose della gran Parigi, trovò il sito adatto alle cacce, alle corse, alla pesca, ai geniali e misteriosi ritrovi, e vi formò il Parco tale qual è, delizia dei principi e del popolo”: poche parole di commento, scritte sul finire del secolo XIX, che sintetizzano efficacemente l’idea del Vice Re d’Italia, sostenuta dal patrigno Napoleone, di adibire una vasta area a destinazione agricola e boschiva a nord di Monza al completamento dei già esistenti Giardini della Villa Reale.
La storia del Parco di Monza affonda in effetti le sue radici remote nella costruzione, avviata nel 1777, della splendida reggia piermariniana voluta dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria per il figlio Ferdinando, governatore della Lombardia. La scelta del sito di Monza, “ove l’aria è generalmente riputata assai buona”, era giustificata allora da diversi fattori: il vantaggio di disporre di una residenza di campagna di proprietà, senza dover più ricorrere a costose forme di ospitalità, la vicinanza a Milano, l’antica tradizione di una presenza regale, da Teodorico a Teodolinda a Federico Barbarossa, l’amenità del luogo poco distante dal borgo murato e al contempo immerso nel verde della Brianza. La storiografia monzese narra in proposito che l’arciduca stesso si era recato con il Piermarini nei pressi di Monza e che “gli piacque quell’orizzonte, ed a migliore esperienza montò su di un carro, che pei lavori agresti ivi si trovava, e veduta la deliziosa prospettiva dei colli briantei …innamoratosi del sito, decise che si erigesse pei principi vicerè un sontuoso palazzo sotto il bel cielo di Monza”.
La costruzione architettonica, modulata sui prestigiosi esempi europei di Schönbrunn e di Versailles, ma non ignara della tradizionale impostazione ad “U” delle preesistenti ville brianzole, si pone come un pregevole esempio di applicazione da parte del Piermarini dei concetti di decoro, di convenienza, di razionale misura declamati dall’imperante gusto neoclassico, interpretati dal maestro folignate in maniera sobria, rigorosa, elegante nelle lineari partizioni architettoniche del fronte allargato sulla corte d’onore, ritmato da precise scansioni modulari e reso ancor più solenne da un accentuato asse prospettico centrale che si prolunga nel viale di accesso.
A necessario completamento della reggia il Piermarini pone i giardini, che nei progetti originali definiscono regolari parterres alla francese – quasi tappeti fioriti da ammirare dalle finestre dei saloni – disegnati da viali, aiuole geometriche, serre per le delicate piante esotiche, fruttier e giochi d’acqua; di fronte alla facciata posteriore della villa un’ampia terrazza digradava verso un ninfeo con una vasca d’acqua al centro, organizzato anch’esso intorno all’asse prospettico principale che rappresenta idealmente l’estensione del potere del sovrano sulla natura circostante.
Già il Piermarini aveva previsto la possibilità di ampliare il nucleo originario del giardino verso levante, in direzione del fiume, in modo tale da ottenere particolari effetti luministici e prospettici, con un ampio viale alberato e un canale che terminava in una vasca posizionata al centro di un rondò a stella, da cui si diramavano altri viali rettilinei: così facendo l’architetto avrebbe offerto la possibilità di abbracciare tutto il giardino con un solo sguardo e di esaltare la profondità della visuale paesaggistica grazie agli effetti atmosferici dell’evaporazione dell’acqua.
Il progetto piermariniano viene poi ulteriormente arricchito da un particolare angolo di giardino, espressamente richiesto dall’arciduca Ferdinando a seguito di un suo soggiorno a Vienna, modellato sulla falsariga dei moderni giardini paesistici all’inglese. Nel settore settentrionale dell’area verde, quasi defilato rispetto l’ufficialità del palazzo, il Piermarini introduce un brano di giardino romantico – precoce esempio in Italia – che esalta gli aspetti “selvaggi”, naturali, pittorici di una natura artificialmente libera dalle costrizioni dell’uomo, romanticamente fosca, luogo ideale di meditazione e di emozione accompagnata dal mormorio delle acque correnti.
Questa ampia premessa si rende necessaria per collocare nel giusto contesto storico la successiva creazione del Parco Reale di Monza, la cui origine è indissolubilmente legata alla Villa e agli avvenimenti per altri versi drammatici che interessano la Lombardia a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo. La splendida vita di corte che gli austriaci conducono nella Villa di Monza conosce difatti una brusca interruzione nel 1796 con la calata delle truppe napoleoniche; dopo alcuni anni di abbandono e di degrado, la reggia torna fortunatamente ad essere oggetto di attenzione da parte del governo francese, prima come residenza della Repubblica, poi, dopo l’incoronazione del maggio 1805, come palazzo del vicerè Eugenio di Beauharnais. In questa fase i Giardini piermariniani vengono profondamente modificati dall’Architetto Nazionale Luigi Canonica che, aggiornato sulle moderne tendenze del giardino paesistico, trasforma all’inglese tutto il complesso, eliminando la terrazza affacciata verso levante e sostituendola con un vasto prato bordato da alberi sapientemente disposti che, come macchie di colore, creano quadri naturali nel celebre “cannocchiale prospettico”. La sensibilità romantica del Canonica si esplica anche nell’introduzione di quegli elementi architettonici ricostruiti che i trattati sul giardino paesistico raccomandavano caldamente: il tempietto classico che si specchia nelle acque del lago, la torre neogotica, la rovina suggestiva, la cascata artificiale…
E’ in questo clima di rinnovata sperimentazione che si colloca storicamente l’atto di nascita del Parco: Napoleone ed Eugenio, che soggiorna volentieri a Monza, sanciscono nel 1805 la creazione di una vasta area destinata ad ampliare verso nord i Giardini della Villa. La genesi del Parco, ricostruita da recenti studi e ricerche, si mostra in realtà come un processo lungo ed articolato, così come varie sono le motivazioni che sottendono la creazione della vasta tenuta; a partire dall’ottobre 1805 prende il via una accurata ricognizione del territorio nel quale i fondi interessati, numerosi e appartenenti a diversi proprietari, vengono censiti minuziosamente, descritti e acquisiti dal governo francese mediante permute almeno sino al 1808, definendo così in corso d’opera i confini e il perimetro della tenuta sino al definitivo contorno di circa 10 miglia e alla superficie di 732 ettari.
Quanto alle motivazioni, è da sottolineare con forza che Napoleone non volle la creazione di un giardino paesistico fine a se stesso, un parco romantico esclusivamente destinato agli svaghi di corte: volle anzi che la tenuta monzese fosse produttiva e autosufficiente, un’azienda agricola modello perfettamente inserita in un tessuto circostante ancora fondamentalmente rurale, una riserva di caccia ove sperimentare, sulla scia dell’entusiasmo illuminista, nuove forme di allevamento.
Solo in questa luce e con queste premesse si può comprendere appieno il “fenomeno” Parco di Monza, un oggetto con caratteristiche uniche che coniuga perfettamente passato e futuro sin dalla sua nascita, e solo così se ne può coerentemente progettare lo sviluppo.
I numerosi e frammentari appezzamenti acquisiti dall’amministrazione francese presentavano infatti due tipologie di problemi: da un lato l’estrema varietà del territorio che spaziava dal giardino inglese della Villa Reale a sud al tortuoso corso del Lambro nel settore orientale all’antica selva boscosa, il Bosco Bello, a nord; dall’altro le numerose preesistenze architettoniche inglobate di peso nella tenuta, assai varie, come vedremo, per valenza architettonica e destinazione d’uso.
Una simile situazione necessitava di un valido intervento di progettazione e di supervisione che fu affidato al già menzionato ticinese Luigi Canonica il quale, rispondendo alle precise richieste della committenza, elabora a più riprese uno schema unitario sia sotto il profilo paesaggistico-funzionale che sotto il profilo architettonico, collaborando strettamente con Luigi Villoresi, attento direttore dei Giardini e curatore degli aspetti botanici della tenuta.
Il Canonica organizza dunque il complesso monzese tenendo in debita considerazione la morfologia del territorio, con i suoi terrazzamenti digradanti verso il fiume, e definisce nel Parco grandi aree tematiche: il settore meridionale ad esempio, più vicino ai Giardini e alla Villa, mantiene più evidenti caratteristiche di giardino, con i suoi viali, i suoi rondò a stella che convergono nelle praterie segnate dalle anse del fiume. La vasta area mediana trova invece la sua definizione nel regolare disegno dei campi coltivati delimitati da filari di alberi, mentre il settore settentrionale, con la sua superficie boschiva e selvaggia, è individuato come luogo ideale per la pratica della caccia. I disegni progettuali conservati mostrano una progressiva regolarizzazione di questa area, intersecata da viali ortogonali e da un grande rondò a stella, destinato a favorire l’orientamento dei cacciatori e ad integrare l’organismo del Parco con spettacolari vedute sulle montagne e sui borghi brianzoli. Il Canonica si trova anche nella necessità di intervenire sulle preesistenti fabbriche con una complessa serie di lavori che mirano a conservare quanto meritava di essere mantenuto e a rivestire di una veste più confacente quanto al contrario era troppo rustico, non adatto comunque ad un parco adiacente una residenza regale.
Si introduce così nel Parco una valenza architettonica di grande importanza: il Canonica conserva al suo interno – quasi cuore ideale del complesso – una residenza nobiliare di antica origine, la seicentesca Villa Mirabello realizzata dai Durini feudatari di Monza a partire dal 1648 e ornata di interessanti affreschi. Parimenti il Canonica conserva, anzi valorizza, la più piccola Villa Mirabellino, splendido ritiro di incontri musicali e letterari voluta dal cardinale Angelo Maria Durini nel 1776 a completamento della precedente residenza. Di più, il Canonica percepisce e sfrutta le potenzialità scenografiche e prospettiche del viale di carpini che collega le due residenze, il cui orientamento viene ripreso e moltiplicato nei viali del Parco.
Il dialogo tra passato e presente si concretizza nei numerosi progetti architettonici redatti dal Canonica per rimodernare le cascine, i mulini, i casolari inglobati nel nuovo complesso: nascono così la Cascina San Fedele, isolata su un poggio, la Cascina Frutteto, al centro di uno scenografico “frutteto matematico” purtroppo scomparso, la monumentale Cascina Fontana, la vasta Cascina Casalta affacciata sul fiume, il curioso Serraglio dei Cervi dove gli animali erano allevati prima di essere liberati durante le battute di caccia.
Ciascun progetto del Canonica mostra una sua precisa identità architettonica che oscilla dal recupero di elementi classici, rinascimentali e palladiani alle più moderne sperimentazioni del revival neogotico che vive proprio a Monza una sua prima, felice stagione, se pensiamo che il Canonica recupera e riutilizza nella Cascina San Fedele autentici pezzi di scultura gotica provenienti dalla distrutta chiesa milanese di Santa Maria di Brera, capolavoro del Trecento.
L’impronta del Canonica rimane anche negli anni successivi la caduta di Napoleone, quando subentra nella direzione dei lavori l’ingegner Giacomo Tazzini che realizza per gli austriaci i suggestivi fabbricati della Cascina Costa Bassa, l’ospedale dei cavalli “travestito” da tempietto classico, della Cascina Costa Alta, del Mulino di San Giorgio, dei Mulini Asciutti, del bellissimo Mulino del Cantone, con la fantastica unione fra una torre medievale merlata ed un frontone classico.
Accanto a questa pur fondamentale valenza artistica, non va tuttavia dimenticato che il Parco continua ad essere luogo vissuto, abitato, coltivato, attraversato da viaggiatori, gestito da funzionari che controllano minuziosamente la produzione agricola, l’entità degli allevamenti, il ricambio degli animali selvatici, la qualità dei prodotti…
Le vicende storiche della Lombardia ottocentesca rimandano, come è noto, al Risorgimento, all’Unità, all’arrivo dei Savoia cui la Villa e il Parco di Monza vengono concessi con legge dell’agosto 1868 in uso e godimento. L’età sabauda non apporta grandi cambiamenti sotto il profilo progettuale del Parco, mantenendo sostanzialmente inalterata la visione d’insieme del Canonica; sarà piuttosto il regicidio del 29 luglio 1900 a segnare una tappa fondamentale nella vicenda del complesso. L’abbandono della Villa Reale all’indomani dell’assassinio di Umberto I, compiuto a Monza dall’anarchico Gaetano Bresci, segna anche l’abbandono del Parco da parte dei Savoia che, nel giro di pochi anni, il 21 agosto 1919 retrocedono la proprietà al Demanio dello Stato e con Regio Decreto del 3 ottobre dello stesso anno destinano la tenuta monzese a quattro diversi enti: all’Opera Nazionale Combattenti reduci di guerra viene concessa tutta la parte a nord di Viale Cavriga, alla Scuola Superiore di Agricoltura 50 ettari al di là del Lambro e l’ex convento delle Grazie, all’Opera Nazionale Orfani Infanti il Mirabellino, mentre restano in capo al Demanio le aree a sud di Viale Cavriga con la Villa e i Giardini. A questo punto i destini di Parco, Giardini e Villa seguono strade diverse: l’Opera Nazionale Combattenti, cui spetta la porzione maggiore della tenuta, definisce il dono “oneroso e passivo” e inizia a valutare la possibilità di trovare alla vasta proprietà una nuova destinazione d’uso, come ad esempio nel progetto Giachi-Viganoni del 1919, secondo il quale il Parco avrebbe dovuto essere trasformato in città-giardino collegata a Milano da uno spazioso viale, con aree residenziali, agricole e impianti sportivi e di svago. Tramontato il progetto, l’Opera Nazionale definisce un accordo con il Consorzio formato dai comuni di Monza, Milano e dalla Società Umanitaria per l’affitto del Parco, ufficializzato con l’atto di locazione del 1° dicembre 19214. Nell’anno successivo il Consorzio, preso possesso del Parco, procede a sua volta a forme di subaffitto che porteranno, nel giro di breve tempo, alla realizzazione di impianti sportivi di avanguardia come l’autodromo, l’ippodromo, il campo da golf.
Nel gennaio del 1922 l’Automobile Club di Milano, in occasione dei festeggiamenti per il 25° anniversario, aveva stabilito di realizzare una pista motoristica fissa fortemente caldeggiata anche dalle Case costruttrici italiane che vedevano nell’impianto la possibilità di effettuare prove tecniche e di velocità in vista dello sviluppo dell’automobile. L’automobilismo sportivo stava allora vivendo una fase di grande fortuna, testimoniata ad esempio dal successo del 1° Gran Premio d’Italia disputato nel ’21 su di un circuito semi-permanente nei pressi di Brescia. Venne individuata l’area ottimale per la realizzazione del circuito nel settore settentrionale del Parco di Monza e, costituita la SIAS (Società Incremento Automobilismo e Sport) destinata a gestire l’impianto, il progetto venne affidato all’architetto Alfredo Rosselli. Il disegno, ridimensionato in corso d’opera, portò alla definizione di una pista stradale di 10 chilometri complessivi di lunghezza, con un anello per l’alta velocità dotato di due curve sopraelevate; i lavori iniziarono il 15 maggio 1922 per concludersi in soli centodieci giorni grazie all’impegno straordinario di uomini e mezzi, tra cui una piccola ferrovia a vagoncini.
Il 28 luglio 1922 fu possibile percorrere per la prima volta la pista di Monza e il 3 settembre fu organizzata l’inaugurazione ufficiale; il 10 settembre dello stesso anno si svolse il 2° Gran Premio d’Italia alla presenza di un folto pubblico assiepato sulle tribune in legno e muratura. Il circuito consentì nel giro di pochi anni uno straordinario sviluppo delle prestazioni di auto e moto che raggiunsero le strabilianti velocità di oltre 200 chilometri orari, con i grandi protagonisti della storia dell’automobilismo di tutti i tempi, come Tazio Nuvolari che vinse diverse edizioni del Gran Premio di moto sino al 1929 e il giovane Enzo Ferrari al volante dell’Alfa Romeo nel ‘23.
Dagli anni Venti in avanti lo storico Autodromo di Monza, il più antico impianto funzionante in Europa, secondo nel mondo solo al celeberrimo Indianapolis, ha segnato la storia degli sport motoristici grazie anche a soluzioni tecniche di alto livello che hanno negli anni portato a continui adeguamenti e miglioramenti sia del circuito stradale che delle strutture annesse. Nel 1938, ad esempio, furono realizzati consistenti lavori di rifacimento del tracciato e di costruzione della nuova tribuna d’onore in cemento armato, ultimata nel 1940 con un disegno di grande modernità, debitore delle tematiche del Razionalismo europeo.
Gli anni della seconda guerra segnarono profondamente la realtà sia del Parco, spogliato del suo patrimonio arboreo per le necessità militari e civili, che dell’Autodromo: le attività sportive furono sospese e le strutture dell’impianto destinate a usi disparati, da archivio a rifugio per gli sfollati, da recinto per gli animali dello zoo di Milano a sede per parate di mezzi corazzati, con i conseguenti immaginabili danni.
Gli anni del dopoguerra hanno segnato una veloce rinascita del circuito e delle strutture collaterali così da consentire nel ’48 la ripresa delle attività sportive, con la nascita ufficiale nel 1950 della moderna Formula Uno e le vittorie dei mitici Ascari e Fangio. Negli anni Cinquanta la pista tornò ad avere l’anello di alta velocità in cemento armato con le due grandi curve sopraelevate che raggiungono nella parte superiore una pendenza dell’80%, capolavoro di tecnica ingegneristica, oggi non più utilizzate ma testimoni di una stagione ricca di novità tecnologiche.
In tal senso allego l’articolo a firma di Alfredo Grandi responsabile della Comunicazione dell’Autodromo Nazionale Monza, sulla storia delle sopraelevate, pubblicato sulla Guida Monza 2007.