Sul casco da pilota portava i colori e la croce simbolo della Svizzera ma nell’anima non poneva confini con il nostro Paese. Clay Regazzoni si sentiva italiano, un po’ per il cognome, un po’ per la lingua, quindi per il carattere ed infine per il modo di fare. Lo si comprese definitivamente in una soleggiata domenica di Settembre del 1970, quando a Monza vinse il Gran Premio d’Italia sulla Ferrari scatenando un’invasione di pista di proporzioni mai viste prima.
Gian Claudio (Clay per tutti, tranne che per la mamma) Regazzoni nacque il 5 Settembre 1939 a Mendrisio, un paesino vicino a Lugano dove il papà faceva il carrozziere ed il sindaco e si affacciò relativamente tardi alle corse, debuttando in F3 nel 1965 con la scuderia Martini-Sonvico Racing grazie all’aiuto dell’amico e anch’egli pilota Silvio Moser (tra gli artefici della Bellasi, team F1 tutto svizzero).
Il fiuto di Enzo Ferrari fece il resto.“Viveur, danseur, calciatore, tennista, grande risorsa dei rotocalchi femminili e a tempo perso pilota”. Così lo definì, amabilmente e non senza la sua inimitabile e pungente ironia proprio il Drake, che lo contattò sin dal 1969, quando i giornalisti ancora ne storpiavano il cognome in “Ragazzoni”.
In quel 1970 che lo portò alla ribalta nel Circus (e che lo vide anche Campione Europeo di F2 sulla Tecno dei fratelli Pederzani) avrebbe dovuto alternarsi al fianco di Ickx con l’altrettanto promettente Ignazio Giunti, ma alla fine il volante fu suo. Quello con la Ferrari fu ben più di un rapporto di lavoro: si trattò di un amore durato quasi interrottamente per 6 stagioni, 73 dei 132 Gran Premi disputati in totale in carriera.
E fu proprio Regazzoni uno dei pilastri della indimenticabile resurrezione ferrarista di metà anni Settanta: nel 1974, oltre che accollandosi il fondamentale lavoro di sviluppo e di collaudo della 312 B/3 profondamente rinnovata dall’ing. Forghieri propiziò l’assunzione al suo fianco del giovane austriaco Niki Lauda, già suo compagno l’anno prima durante la stagione con la nobile e decaduta B.R.M che lui ricordava come “l’esilio inglese”.
E quello avrebbe davvero potuto essere il suo anno. Si definì “Campione per 500 metri”, lo spazio in cui fu davanti ad Emerson Fittipaldi nella decisiva ultima gara di quell’anno a Watkins Glen. I due sfidanti arrivarono al Gran Premio degli Stati Uniti appaiati a 52 punti. Quel 6 Ottobre qualcosa (gli ammortizzatori) non funzionò e il titolo fini ad Emmo e alla McLaren. Clay soffrì sempre ripensando a quel Campionato sfuggito per una serie di complotti umani, guasti meccanici e punti sperperati in una inutile guerra fratricida con il compagno di squadra.
Un titolo Mondiale che avrebbe dato senso alla sua intera carriera e che invece da quel momento imboccò l’inesorabile viale del tramonto. All’interno della Scuderia era iniziata “l’era Lauda”: Niki si dimostrò ben presto privo del rispetto reverenziale che il suo compagno tra il ‘70 ed il ‘72 ebbe verso Ickx. Nel 1975 Regazzoni dovette accettare suo malgrado, tra una sbuffata di protesta e l’altra, il ruolo di sua seconda guida oltre lo smacco di vederlo laurearsi Campione del Mondo. L’unica soddisfazione quell’anno arrivò con il bis a Monza. Lauda del resto incarnava il prototipo del pilota del futuro, dedito ad una tabella di allenamenti e preparazione fisica inflessibile: una filosofia di pilota distante anni luce da quella cara a Regga (così lo chiamavano i giornalisti inglesi), secondo la quale ogni gara è un Campionato in cui dare tutto, senza calcoli a lunga scadenza.
Il grande amore con la Ferrari terminò l’anno seguente. L’ingaggio a metà stagione di Carlos Reutemann fu un atto di sfiducia verso lo svizzero, accusato di non aver saputo aiutare a sufficienza Lauda al rientro dopo l’inferno del Nurburgring. Il Commendatore in persona gli rinfacciò oltre agli errori in pista anche le troppe ore dedicate agli impegni pubblicitari.Eppure, nonostante questo, Regazzoni rinunciò per il 1977 a far coppia con Hunt alla Mclaren, aspettando da Maranello una riconferma che non arrivò mai.
Si alternò allora tra Ensign e Shadow, corse anche ad Indianapolis grazie a Teddy Hip. Il tutto senza risultati né soddisfazioni ma sempre da professionista serio, capace anche di dire di no nel 1978 ad Ecclestone ed alla ben più competitiva Brabham quando questi, dopo un accordo verbale già raggiunto, nel giro di un mese gli dimezzò la proposta di ingaggio.
Ma ci fu ancora il tempo per un’ultima soddisfazione quando nel 1979 regalò, senza ricevere nemmeno un grazie da patron Frank, la prima storica vittoria alla Williams nel Gran Premio d’Inghilterra. Salì sul gradino più alto del podio sfoggiando quel sorriso che negli anni aveva saputo conquistare doppiamente gli appassionati: in primis grazie alla sue corse tutta grinta e staccate e in seguito con la volontà ed il coraggio di vivere al vita al massimo comunque e nonostante le conseguenze del drammatico
incidente del 30 Marzo 1980 sul circuito stradale di Long Beach. Quando il pedale del freno della sua Ensign si staccò a causa di una ossidazione facendolo schiantare a 300 km orari contro un muro di cemento. La compressione della dodicesima vertebra lo privò dell’uso delle gambe ma dopo mesi di cupa solitudine reagì, tornando ad aggredire la vita con lo spirito guascone con cui l’aveva sempre affrontata,
sin dai giorni lontani in cui si chiamava ancora Gian Claudio e non Clay.
Regazzoni fu un personaggio a tutto tondo, istintivo e naturale come nel celebre balletto con Raffaella Carrà ma anche buono e generoso come quando rifiutò di partecipare alla “Domenica Sportiva” dopo la sua prima affermazione a Monza, preferendo restare al ristorante e proseguire i festeggiamenti con i suoi meccanici capitanati dal mitico Borsari. Quando nel 1971 ricevette il premio “Tazio Nuvolari” ad Enzo Ferrari, che il mantovano lo aveva conosciuto bene, l’accostamento non parve irriverente. Perchè in fondo Clay fu pilota di stampo antico che forse si sarebbe trovato più a suo agio nell’epoca ruggente di Stirling Moss. Avesse corso venti- trent’anni prima, in un habitat fatto di vetture da domare con l’acceleratore sempre al massimo tra frenate e tenute di strada molto relative, probabilmente avrebbe raccolto molto di più dei suoi cinque successi.
Morì su una strada normale, con una macchina normale, da uomo normale. Lo stesso destino di Mike Hawthorn, Mike Hailwood, Mike Parkes.
Morì in una fredda notte di Dicembre del 2006 alle porte di Parma mentre si recava ad una cena di appassionati come lui di auto, di corse, della vita.